La valutazione delegata

Oggi vi voglio parlare di come il lavoro svolto da un docente universitario viene valutato, premiato o punito.

Forse lo studente immagina che ciò attenga alla qualità della didattica erogata, come sembrano suggerire gli innumerevoli questionari che è chiamato a riempire all’atto della prenotazione degli esami. Non è così, quelle risposte restano circoscritte nell’ambito del corso di laurea, ed anche se il suo presidente ne viene portato a conoscenza, questi non può fare molto oltre a discuterne con i docenti segnalati. La reale progressione di carriera, da ricercatore a professore associato ad ordinario, avviene invece in base a criteri che ben poco hanno a che fare con la didattica.

Qualcuno può anche immaginare che dopo regolare domanda del candidato venga riunita una sorta di commissione che, dopo averne verificato la preparazione, l’attività, e le capacità espositive, proceda (o meno) a certificarne l’idoneità, creando una qualche forma di graduatoria in attesa del reperimento delle risorse per l’effettivo avanzamento. Non è neanche così, lo era fino ad una quindicina di anni fa. Personalmente partecipai a svariati concorsi in giro per l’Italia prima di riuscire ad entrare (a 32 anni) presso l’università di Perugia, e quasi dappertutto quando mi vedevano i commissari si guardavano tra di loro chiedendosi più o meno: E questo chi è? Ma tu lo conosci?

In realtà l’attuale meccanismo di avanzamento di carriera è esclusivamente per titoli, ovvero a nessuno prende l’effettiva briga di andare a leggere le carte del candidato, e tanto meno di chiedergli qualcosa. I titoli che vengono valutati sono solo quelli relativi alla cosiddetta produzione scientifica, ossia numero e qualità degli articoli pubblicati su riviste internazionali, in cui la qualità è espressa secondo criteri bibliometrici come rilevanza della rivista, numero di citazioni… ossia nel modo più indiretto possibile. E chi è che decide se il valore degli indicatori bibliometrici sono sufficienti a conseguire l’abilitazione, che in pratica è una forma di graduatoria nazionale? Non certo una commissione, tanto meno locale, bensì una agenzia ministeriale dal sinistro acronimo di ANVUR, a partire dai dati resi disponibili dagli editori delle riviste su cui sono pubblicati gli articoli.

Per questo motivo la redazione di un testo didattico, oltretutto ad accesso libero, per quanto approfondito, completo ed apprezzato dalla sua comunità di lettori, ha un valore nullo, anzi addirittura negativo: se si prova infatti ad inserire il lavoro nell’elenco della propria produzione scientifica, l’ateneo di appartenenza verrà penalizzato nel calcolo della attribuzione di fondi per il suo funzionamento.

La ragione per cui viene data tutta questa importanza alle riviste è dovuta alla presenza del peer review, ovvero di ricercatori individuati dagli editori tra quelli che lavorano nello stesso campo in cui ricade l’articolo che si vuole pubblicare, e che esprimono pareri ed osservazioni anonime relative alla qualità dell’articolo, approvando o respingendone la pubblicazione. Dunque, l’università rimanda la valutazione degli universitari all’ANVUR, e questo la delega ai revisori anonimi che, in quanto anonimi, neanche si sa chi siano.

Il meccanismo descritto ha presto dato luogo a diversi effetti distorsivi:

  • la didattica diviene un impegno secondario, che toglie tempo all’attività di ricerca che da invece luogo a pubblicazioni;
  • le riviste scientifiche contengono un numero abbastanza ridotto di articoli che presentano risultati degni di nota, dato che per migliorare il proprio indice bibliometrico si cerca di pubblicare qualunque dettaglio anche se poco significativo, innescando vere e proprie sequel di risultati parziali, approfonditi in articoli successivi che (auto)citano i precedenti, in quanto anche le citazioni concorrono al valore dell’indice bibliometrico;
  • i ricercatori spendono parte del loro tempo nella attività di peer rewiev, revisionando articoli relativi a scoperte improbabili provenienti dai quatto angoli del pianeta, anziché confrontarsi e collaborare con i propri colleghi di dipartimento;
  • i ricercatori lavorano gratis come revisori per gli editori, mentre le università di cui fanno parte pagano profumatamente gli editori per l’abbonamento alle riviste, che al giorno d’oggi non arrivano neanche più in formato cartaceo, ma vengono lette on-line (solo a partire dai computer dell’università);
  • dato che revisore e autore appartengono alla stessa area culturale, a volte il primo (anche se anonimo) conosce il secondo, o viceversa, fino alla possibilità che si creino vere e proprie cerchie, che si scambiano citazioni, e che possono esprimere giudizi negativi nei confronti di chi non è del giro.

Dai dodici anni dedicati alla didattica presso la sede distaccata di Latina è derivato (oltre ai testi didattici disponibili presso questo sito) un pendolarismo che mi ha impedito di mantenere i rapporti con i miei colleghi romani, ed essendo quasi impossibile svolgere ricerca di qualche rilievo in solitaria, mi trovo a non aver pubblicato più un granché, e quindi a non avere l’abilitazione dell’ANVUR. Non solo: per lo stesso motivo il mio ateneo mi priva dei diritti politici, e mi nega la corresponsione della premialità annuale, che pure se esigua, poteva rappresentare una sorta di rimborso delle spese per le trasferte a Latina, sostenute nell’interesse dell’Ateneo. Come dire, oltre al danno, anche la beffa.

Nel dubbio su quanto i meccanismi descritti influenzino o meno il PIL, migliorino la qualità dell’editoria scientifica, o determinino una migliore selezione della classe docente, di sicuro l’obiettivo di divulgazione perseguito da TeoriadeiSegnali.it è svolto a puro beneficio dei suoi lettori, scavalcando completamente l’intermediazione editoriale. Per questo, se apprezzi questo lavoro, è oltremodo gradita una tua donazione, od almeno, una recensione!

Photo by Pierre Bamin on Unsplash

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